
di Romina D’Aniello
Incontro Luigi Pietroluongo all’indomani della Conferenza dell’Onu a New York che ha affrontato il tema dei rifugiati e dei migranti.
Sociologo affermato, alle spalle una lunghissima e vasta esperienza nel settore, Luigi Pietroluongo accompagna i minori stranieri non accompagnati.
“Racconto storie vissute, racconto sguardi pieni, mani che vogliono fare e cuori inquieti, molto inquieti”, scrive nel suo blog http://coraggiodiessereumani.blogspot.it/.
Sulle carte questi ragazzi sono dunque dei “misna”. Adolescenti che arrivano in Italia senza genitori, mandati dai loro genitori.
Attenzione, qui le parole sono importantissime: una “cosa” sono i rifugiati di guerra, profughi che scappano dalle bombe, un’altra “cosa” sono questi ragazzi, egiziani per lo più, che si configurano come “migranti economici”, inviati da loro padri – le madri non contano – in Italia alla ricerca di opportunità che possano migliorare le condizioni di vita di tutta la famiglia.
L’Italia!
La criminalità organizzata egiziana rappresenta a questi giovani e alle loro famiglie l’Italia come un paradiso terrestre, dove si arriva e subito si diventa ricchi.
Come questo sia possibile, come sia possibile cioè che qualcuno ci creda dipende dalle gravi condizioni di sub cultura in cui vivono milioni di persone in Egitto. E non solo nelle periferie. Spesso, infatti, si tratta di ragazzi appartenenti a famiglie che vivono di agricoltura semplice, ma non nell’indigenza assoluta.
Luigi Pietroluongo ci racconta lo sfogo di Hossam, sedici anni: “Alla fine del viaggio in barca, mi aspettavo di trovare sulla spiaggia un uomo pronto a consegnarmi chiavi, telefono e un’automobile”.
In nome del “sogno italiano” i suoi genitori, come i genitori di molti altri ragazzi egiziani affidati a Luigi Pietroluongo, hanno pagato quattro mila euro a dei criminali, anzi hanno contratto un debito, hanno rischiato che il loro figlio morisse nella traversata in mare, e presto si aspettano che il giovane sia in grado di rispedire a casa i soldi, necessari prima per pagare il conto con gli interessi, e poi per far vivere meglio il resto della famiglia.
Dall’Egitto i genitori chiamano tutti i giorni in casa famiglia e reclamano i soldi. Non capiscono perché i loro figli, che in Egitto, dopo i dodici anni, lavoravano pure venti ore al giorno in aziende e ditte di ogni tipo e guidano gli autobus, qui non possono lavorare. Perché sono minorenni, e la nostra legge li tutela.
Hossam e gli altri, intanto, si sono trovati catapultati in un altro mondo: se, nel migliore dei casi, hanno scampato la morte e i modi non sempre gentili dei traghettatori, sono stati affidati ad una casa famiglia, che si preoccupa di dare loro cibo, vestiti e alloggio, ma anche di fornire la conoscenza della nuova lingue e le regole base della vita in Italia.
A proposito delle regole, Luigi Pietroluongo, autore peraltro di un interessante articolo “Modelli educativi egiziani”, spiega che i ragazzi si ritrovano spiazzati in uno Stato nuovo e dall’apparente libertà, lontanissimo dal modello educativo arabo-egiziano con cui sono stati cresciuti, di tipo impositivo-assertivo. Un modello nel quale la mamma e le sorelle sono “in cucina con la porta chiusa” e il padre comanda: chi non esegue viene massacrato di botte.
Ma anche la libertà italiana, e occidentale più in generale, mette a disagio questi ragazzi: presto si rendono conto che la nostra libertà è frutto di moltissime regole e norme, come la legge sul lavoro appunto, e che non va confusa con il libertinismo.
Giunti in Italia, insomma, perdono i loro punti di riferimento: il pater familias e l’imam.
E allora parte un viaggio interiore di adattamento. L’integrazione – parola fin troppo abusata – è una realtà possibile?
Dall’alto della sua esperienza, Luigi Pietroluongo non ha dubbi: l’integrazione richiede reciprocità, specialmente nel confronto con migranti economici. E la reciprocità è fatta di accoglienza dignitosa, competenze educative di altissimo livello, legislative, medico-sanitarie e sociali.
L’esperienza del sociologo è costellata di storie da libro Cuore, di ragazzi che sono grati a quello che per loro fanno l’Italia e gli operatori che conoscono, ma non nega che ci sono molti casi in cui i ragazzi non ce la fanno, non imparano neppure l’italiano, dopo mesi in casa famiglia ascoltano ancora musica araba, in stanza si rifanno il tappetino per pregare e non frequentano le attività proposte, talvolta passano di casa famiglia in casa famiglia.
E’ difficile, certo, in questi casi comprendere perché il Ministero dovrebbe loro concedere i documenti per circolare liberamente nel nostro Paese. In questi casi – è chiaro – i rischi sono la prostituzione nelle grandi città metropolitane, il mercato della droga e, nel peggiore dei casi, l’arruolamento nel fanatismo terroristico.
Bando al buonismo e a qualsiasi ideologia: “L’ideologia, qualunque essa sia, si stacca dalla realtà”, dice Luigi Pietroluongo.
Sui piatti della bilancia, dunque, vanno posti – secondo Pietroluongo – da una parte strutture dignitose e competenze eccellenti gestite da un unico dipartimento ministeriale, per evitare che si facciano chiacchiere da bar scoordinate tra loro, dall’altra parte un “patto di alleanza” tra chi accoglie e chi è accolto che realizzi la reciprocità.
Nelle prossime settimane, potrete seguire Luigi Pietroluongo anche sulle pagine dell’Eco del Gari, grazie alla rubrica CORAGGIO DI ESSERE UMANI collegata al blog del sociologo e che lui stesso RIEMPIRA’ DI UMANITA’.