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La Costituzione non è una Legge qualsiasi: il mito della riforma

di Martina Mendolicchio, studentessa in Legge all’Università di Roma “La Sapienza”

Premetto che sono fortemente contraria ai vari slogan che stanno vivacizzando, con un’intensità sempre più crescente e sconvolgente, l’attuale dibattito politico. L’idiozia per antonomasia è l’esortazione a barrare il NO alla riforma per mandare a casa il Governo Renzi, sollecitazione alimentata dai signori riformatori stessi che hanno presentato agli elettori il loro prodotto come una decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica del Governo. La Costituzione, e di conseguenza la sua riforma,  devono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, e non espressione di un determinato indirizzo di Governo.

La Costituzione non è una legge qualsiasi. È la Legge. La legge fondamentale della Repubblica che si colloca al vertice del sistema delle fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, a palesare le fondamenta comuni della convivenza sociale, civile e politica. La storia delle sue origini è ricca di fascino e intrisa di patriottismo. Era il 1946, l’Italia usciva devastata dalla Seconda Guerra Mondiale, il conflitto che dal ’39 al ’45 vide contrapporsi a livello globale le potenze dell’asse e i paesi alleati, sullo sfondo delle tre cose più terrificanti e drammatiche di cui il contesto mondiale sia mai stato teatro: il nazismo di Hitler, il fascismo di Mussolini e il comunismo di Stalin. Ma l’evento più angoscioso e triste per il nostro paese fu la guerra civile del ’43 che vide scontrarsi italiani contro italiani. E in questo cupo scenario nasceva la Resistenza, sgorgata da qualche angolo basso d’Italia per restituire alla propria patria i principi più importanti della dignità e della libertà. E così è stato: il 25 aprile 1945 le forze partigiane liberarono il Nord Italia e con la resa di Caserta si pose definitivamente fine alla Campagna d’Italia e si decretò la sconfitta delle forze armate nazifasciste. Un anno più tardi, il 16 marzo 1946, un decreto legge attribuiva direttamente al popolo, che l’avrebbe effettuata tramite referendum, la scelta della forma istituzionale: monarchia o repubblica. Il 2 giugno 1946 il popolo scelse la repubblica.

Nello stesso periodo fu chiesto di redigere un testo che raccogliesse regole necessarie per vivere insieme. Nasceva il progetto della Costituzione, a cui presero parte uomini di filosofia e di politica di tutti i possibili orientamenti politico filosofici, citando Benigni, ‘divisi in tutto tranne che nell’essere uniti’.

L’assemblea costituente, fatta di questa compresenza delle più diversificate impostazioni di pensiero (liberale, cattolica, socialista, ecc.) diede vita al più fine e mirabile compromesso a cui la storia italiana abbia mai assistito. E per compromesso non intendo un patto accettato a denti stretti in cui ciascuno ha benevolmente ceduto qualcosa all’altro, ma intendo il compromesso nel suo più puro e immediato significato etimologico di promessa condivisa (compromesso, dal latino ‘cum’: insieme e ‘promissus’: promesso).

Pertanto è impensabile accettare una riforma della Costituzione che si ponga prepotentemente come estrinsecazione di un Governo e come manifestazione di una maggioranza, tra l’altro vacillante e incostante, prevalsa a livello parlamentare. La riforma costituzionale, così come la Costituzione stessa, non deve essere né di destra né di sinistra, non deve essere una questione di partito, un prodotto di politica contingente fatta di scontri quasi epici tra maggioranza e opposizioni, ma deve essere un prodotto politico frutto di un consenso armonico e condiviso maturato fra tutte le forze politiche.

Procedendo in direzione di un’analisi più tecnica del referendum, considero inadatto ascrivere al bicameralismo paritario la responsabilità principale dell’impasse legislativo del nostro sistema istituzionale. Inoltre ritengo che sia stato perseguito erroneamente il proposito dell’assegnazione della competenza di dare o revocare la fiducia alla sola Camera, seppur un obiettivo condivisibile.

È stato proposto un Senato a rappresentanza delle istituzioni territoriali, ma invece di creare una seconda camera che sia reale manifestazione di ordinamenti regionali funzionali alla valorizzazione degli enti territoriali, è stato, di fatto, presentato agli elettori un Senato minato e illanguidito, spogliato delle attribuzioni essenziali per conseguire un autentico modello di regionalismo cooperativistico.

Detto in termini più agevoli, il Senato che si prefigurerà a seguito di un’eventuale vittoria del SI, non godrà di alcun potere effettivo nell’approvazione di molte leggi sull’assetto regionalistico, a seguito di una funzione legislativa attribuitagli meramente consultiva e facilmente oltrepassabile dal voto contrario della Camera dei deputati, che, con i suoi 630 membri in un Parlamento in seduta comune composto da 778 membri, elegge in sostanza da sola il Presidente della Repubblica, un terzo dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura e tre  giudici della Corte Costituzionale e diventa titolare esclusivo della funzione legislativa. Sembrerebbe preannunciarsi, a tutti gli effetti, un monocameralismo privo di contro-poteri, o al massimo una grave forma di sudditanza del Senato rispetto alla Camera. Inoltre il Senato non sarebbe più eletto a suffragio universale, ma in quanto organo rappresentativo delle regioni, dei comuni e delle città metropolitane, i suoi membri sarebbero scelti dai Consigli regionali e dalle due province autonome di Trento e Bolzano, tra i consiglieri che li compongono e tra i sindaci delle regioni.

Tutto questo per permettere – è stato detto- una riduzione dei costi istituzionali.

È chiaro, tuttavia, che una tale scelta non consentirebbe alcun risparmio, ma al contrario si tradurrebbe in un evidente spreco di finanze. Senatori che esercitassero, contemporaneamente, la carica di consiglieri regionali e sindaci, infatti, darebbero vita ad un’attività inevitabilmente parziale e settaria. Indubbiamente più ragionevole ai fini del funzionamento delle istituzioni e del contenimento dei costi sarebbe, invece, ridurre il numero sia dei deputati che dei senatori, lasciando anche a questi ultimi il privilegio di essere eletti direttamente dai cittadini. Affinché il Senato possa, infatti, rappresentare un efficace ed effettivo organo di contro-potere, occorre dovergli attribuire competenze maggiormente rilevanti e una doverosa e imprescindibile forza politica conseguente a un’opportuna elezione popolare.

Guardando poi alla composizione del Senato, è previsto che i suoi membri restino in carica seguendo  il mandato delle istituzioni territoriali che rappresentano (per intenderci meglio, i senatori sindaci rimarranno in Senato finché saranno sindaci, e i senatori consiglieri rimarranno in carica fino allo scioglimento dei relativi consigli regionali). Questa durata viene a scontrarsi con quella dei senatori di nomina presidenziale, per i quali è previsto un mandato di 7 anni, dando vita ad una composizione senatoriale instabile che è stata da più costituzionalisti definita addirittura come ‘schizofrenica’.

Ma il vizio più sconcertante della riforma del bicameralismo paritario consiste nella sua associazione alla legge elettorale cosiddetta Italicum, anch’essa frutto del progetto governativo. Il nuovo sistema elettorale previsto dalla citata legge è un sistema maggioritario che con i suoi elementi del premio di maggioranza, clausole di sbarramento e liste bloccate, provocherebbe la conseguenza di un indebolimento della rappresentatività e una concentrazione di potere nelle mani della maggioranza di  un Parlamento sostanzialmente monocamerale, che si ridurrà così a un organo di mera ratifica delle decisioni governative dominato da  una coalizione di partiti non legittimata dalla volontà della maggioranza degli elettori.

Un risvolto, questo, inconcepibile per una Costituzione che, al secondo comma del primo articolo, sancisce l’orientamento democratico dello Stato Italiano attribuendo la sovranità al popolo. Solo un sistema proporzionale, che assicura l’eguaglianza del voto e  che mostra tutte le reali divisioni politiche del paese garantendo la presenza dell’ opposizione e delle minoranze e quindi la massima rappresentatività dell’unica Camera elettiva, realizza un Parlamento che in concreto riesce ad esercitare  il ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività governativa. Il sistema maggioritario, che rievoca chiaramente il vecchio Porcellum dichiarato nei suoi vizi incostituzionale dalla Corte, invece, determinerà un governo monocratico che trasformerà il voto al partito di maggioranza nel conferimento quasi diretto al suo leader della carica di Capo del Governo in assenza della rappresentanza delle varie minoranze.

Come è evidente, il combinato disposto altera ancora di più le disfunzioni del nostro sistema istituzionale, evidenziando una revisione costituzionale di marca chiaramente statualista, a favore di una centralizzazione governativa delle competenze. Una centralizzazione che non servirà assolutamente a ridurre, come il Governo con la sua campagna referendaria vorrebbe indurci a credere, il contenzioso tra Stato e Regioni, essendo tale contenzioso non dovuto principalmente alla ripartizione delle competenze legislative, ma piuttosto a una carente legislazione statale di attuazione. E comunque, al ridimensionamento delle competenze regionali non è seguita una valida assegnazione al ‘Senato delle Autonomie’ di pertinenze di riequilibrio. Ritengo, pertanto, che non siano stati assolutamente creati autentici meccanismi di cooperazione tra centro e periferie, periferie che nella pratica non esistono più.

Proseguendo nell’analisi tecnica della riforma, si assiste a un chiaro aggravamento del processo di produzione delle leggi con l’introduzione di una pluralità di nuovi procedimenti legislativi speciali che creano una maggiore indeterminatezza e confusione.

E il progetto governativo, consapevole della complicazione che la riforma genera, ha ben disposto al comma 6 del nuovo art 70 che sono i Presidenti delle Camere a decidere, “d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti”, lasciando dunque il potere decisionale a due persone  in caso di disaccordo. Assurdo.

Il nuovo procedimento legislativo appare manifestatamente farraginoso. E il tutto si complica ulteriormente se si va guardare il novello art 71 che innalza da 50.000 mila a 150.000 il numero delle firme necessarie per l’esercizio dell’iniziativa legislativa popolare, manovra che il progetto di riforma camuffa come funzionale a un ampliamento della partecipazione diretta dei cittadini con l’introduzione   della garanzia di discussione in Parlamento della legge di iniziativa del popolo. Popolo, ricordo, spogliato del diritto al voto del Senato. Cosicché, per accontentarlo viene lui raccontata la favola della riforma garante della sostanziosa riduzione dei costi della politica, quando invece la cruda realtà è che la mitologica moderazione delle spese ammonta a un misero, rachitico e tisico 20 %, equivalente a un caffè per cittadino in un bar di paese.

Questo progetto non rappresenta altro che una degenerazione del modello costituzionale che altera nocivamente gli equilibri fondamentali del nostro ordinamento, celando una deriva verticistica e autoritaria, a partire dall’iniziativa stessa dell’esecutivo che lo ha vigliaccamente imposto attraverso pressioni e forzature, per non dire minacce, a un Parlamento per giunta illegittimo, eletto dalla legge elettorale Calderoli n. 270 del 21 dicembre 2005, dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale per il suo orientamento antidemocratico, a seguito della nomina di senatori e deputati che non sono stati eletti e a seguito di un premio di iper maggioranza che ha ‘rotto il rapporto di rappresentanza’. E citando Aristotele, uno degli antichi padri del giusnaturalismo filosofico-politico che ha ispirato la Costituente nel progetto costituzionale del 1947, dico che “la degenerazione dei modelli è il rischio più pericoloso di ogni scelta politica”.